giovedì 4 ottobre 2012

Gita a Cucuzzo, lunedi' 10 luglio 1826

Questo capitolo, tratto dal racconto "Una spedizione botanica in Calabria" di Michele Tenore, racconta la 'gita' a monte Cocuzzo da parte dell'autore. Nel leggerlo, si ravvivano i ricordi e si ampliano i punti di vista, sulle escursioni fatte per raggiungere la vetta di monte Cocuzzo.
Se il Signor Tenore ci avesse avvisati in tempo saremmo andati volentieri con lui.

Lunedì 10 luglio 1826

Gita al Cucuzzo


Alle 5 della mattina lasciamo Cosenza, e muoviamo alla volta di Mendicino. Non è questa la sola strada, che si può battere per andare al Monte Cucuzzo. Infatti, due altre ce ne sono state proposte, la prima per Carolei, più all’oriente di Mendicino, e l'altra per Cerisano, più all’occidente; ma i conoscitori del luogo sostengono che quella di Mendicino sia la più breve; quando si voglia tornare la sera a Cosenza; laddove andando per altra via bisognerebbe impiegare in questa gita due giorni. Cosenza si lascia, passando il ponte del Busento, e quindi prendendo la valle, dove il letto stesso del fiume replicate volte guadar bisogna, perchè il viottolo dei pedoni non è praticabile a cavallo. Sulle colline la vallata e alberata di viti, fichi ed altri alberi fruttiferi, indi elevandosi verso il monte, di castagni, querce e noci. Bello è l’osservare la giacitura geologica  delle varie masse di rocce, che si presentano lungo la vallata del letto del fiume percorsa. Lasciate le argille. nelle più basse colline cominciano a mostrarsi i scisti argillosi e micacei, i quali diventano sempreppiù compatti nei luoghi ove i fianchi del monte è più addentro scoperti si mostrano. lvi in molti luoghi evidente manifestano il loro senso collo gneis e col granito. Largo pascolo al geologo offrono perciò il letto e le sponde del Busento per le belle e variate specie di rocce di cui può fare ampia collezione ; e tra le quali tutte le combinazioni si trovano del feldspato del quarzo, dell’orniblenda, della mica.

Alnus cordifolia , Ticino

Dopo  3 ore di cammmo, giungiamo a Mendicino: modesto villaggjo, replicate volte rovesciato e riedificato su di un mammellone di queste montuose falde. Qui dappresso pretendono gli archeologi che fosse situata la Pandosia Bruzia, diversa dalla Lucana che collocano presso Eraclea. Gli abitanti di Mendicino annunziano buona salute, e la folla de’ fanciulli che ne ingombra la strada fa fede dell’ottima condizione dell’aria, e della non disagiata condizione del paese. Prima di Mendicino, abbiamo trovato sulla strada ampia sorgente di limpida e fresca acqua, e presso di essa un semidiruto convento abbandonato, le cui fabbriche meriterebbero di essere a qualche uso addette, prima che non cedano al destino che le minaccia. Elevandoci sopra Mendicino, per un’aspra salita, dopo un’ora di cam mino, giungiamo al piano detto della Tavolara, donde per la prima volta si scopre il mar Tirreno col Golfo di Bonifacio, cui sull’estremo punto Nord-Ovest, si legano le montagne di Agata e della Guardia. La sterilità di questo luogo vien resa manifesta dall’abbondanza delle felci che lo ricoprono. Magrissimi dovevano riuscire quei pascoli, e perciò giustamente sono stati abbandonati, mentre nel luogo detto le Vivère, presso una vena di acqua, che è l’ultima a trovarsi su questo monte, veggonsi ancora gli avanzi delle vaschette di legno solite a servire di beveratoi per le greggie. Ivi altra volta ci han detto le guide esservi stata una difesa di giumente del Marchese della Valle, ed una greggia di vacche del Duca di Torella. Questo terreno appartiene al comune di Mendicino, che poco più sopra confina con di Fiume freddo: altro villaggio sulla marina occidentale che non tardiamo a scoprire da quest’altura. Oltre ai castagni veduti nella regione inferiore, di cui misurato il più grosso, trovato lo abbiamo del diametro di 6 palmi. L’albero, che più abbonda, prima delle patrerie è l’Alnus cordifolia Ten. chiamato da questi naturali Ticino.

Nudo di alberi continua il resto del Monte, e solo pochi meschini faggi incontriamo presso la sua più alta vetta. Prima di giungervi, ci fermiamo al così detto Piano di Agrippano, dove può godersi di vasto e variato orizzonte. Il geologo troverà questo luogo interessante, perché segna il confine tra la roccia  primitiva, di cui son composte tutte quelle  montagne, e la calce carbonata compatta, che sembra venuta a soprapporvisi. Al luogo detto muro del cancello, elevasi a picco tutta la formazione calcare, che ricopre la più elevata cresta di quel monte; cosicché volendosi col metodo geologico designare le successive di zone quella composizione, non vi e punto più opportuno da scegliere. Voi avete allora dal piano di Agrippano fino all’estrema cima del Cucuzzo, detta la punta del Romito, una formazione calcare di circa 800 piedi, unicamente di calce carbonara stratosa, e tutta la roccia sottoposta di gncis e di granito; cui sulle più basse falde soprappongonsi schisti argillosi, e semplici argille.
Iberis Tenoreana
Sedum acre
Stromboli, Salina e Panarea
Alla punta del Cucuzzo arriviamo a mezzogiorno. Calva e denudata di ogni vegetazione è quella vetta del monte, e tutte le dirupate falde occidentali e meridionali sottoposte. Poco al di sotto ad essa, dal lato Nord-Ovest, gli avanzi della regione boscosa formano alcune macchie, presso le quali si cavano le fosse per le conserve della neve. Giunto a quel vertice, il più maestoso orizzonte ci si offrire allo sguardo. Noi siamo su di una terrazza che sott’occhio ci schiera il Tirreno ed una gran parte delle Calabrie. All’ovest, a noi  dirimpetto, diritto dal mare il cono di Stromboli, dietro di esso Lipari e le altre isole Eolie si confondono coll’azzurra volta del cielo. Più al mezzogiorno la Sicilia, la cui catena di monti, in ultima linea dall’Etna dominata, scorgesi, dal Nord a Sud-Ovest diretta. La costa di Messina, Reggio. e tutto il resto della Calabria è al perfetto mezzogiorno. Le marine di San Lucido di Fiume freddo, e di Amantea sono sotto i nostri piedi; più verso mezzogiorno la marina di S. Eufemia. Rivolgendoci al Nord-Nord-Ovest, ci si presentano le due punte di Pollinello e Dolcedorme; ed al perfetto nord il Senno. In prima linea più a noi dappresso abbiamo all’Estr Nord-Est il Vallo di Cosenza, e gli stessi più elevati edifizi del Capoluogo, cioè il monastero dei Riformati, ed il Castello. Quindi, torcendo all’oriente, il bosco di cariglia, il monte di Careto della Sila, su cui nero fondo il vosco di Mutuoio, e più verso il Sud il monte del Reventino, sotto cui è situato Nicastro. Infine, compiendo il giro, al Sud-Ovest la marina di liopea, ed al perfetto mezzogiorno l’aspromonte.
Povera è la vegetazione di questa nuda vetta del Cocuzzo. Appena tra i macigni allignano poche gramigne e qualche leguminosa; noi vi notiamo l’iberis Tenoreana, il Sedum acre, ed una specie di trifoglio, che giudichiamo non descritta. Fatte le osservazioni per determinare l’altezza di quel monte, e presso piccol ristoro  all’ombra de’ faggi, che poco sotto di quel nudo ed estremo picco, dal lato occidentale s’incontrano, ne siamo partiti per ritornare a Cosenza. Alla linea del Cancello abbiamo nel ritorno avvertito quanto opportunamente quel grosso banco calcare, per essere tagliato a picco da ogni lato, abbia potuto servire di naturale trinceramento, dietro del quale  partigiani calabresi, capitanati dal famoso Giambattista Micheli, potettero lungamente sostenersi, e difendersi contro grossa mano di truppa agguerrita, che bivaccando al sottoposto piano della Tavolara a gravi perdite in quel frattempo fu esposta. Un pezzo di artiglieria quegl’intrepidi montanari piantato aveano sullo stretto passaggio del Cancello, ove contro di quella soldatesca coraggiosamente battevasi.
Nello scendere, abbiamo anche avuto occasione di meglio considerare la geologica composizione, che scoperta si palesa ne’ scoscesi burroni che costeggiano la strada. Noi ci siamo confermati nell’i‘dea, che le formazioni secondarie non si estendono al di là del Cancello, e che dal luogo detto la Tavolara, cominciano i macigni primitivi, di cui tutti sottoposti monti son composti. Così, via facendo, alla scarsezza dei vegetabili raccolte, abbiamo compensato provvedendoci di varie scheggie di gneis e di graniti bellissimi. Presso Mendicino troviamo in attività non poche fornaci da tirar seta; esse giudicar ci fanno del florido stato di questa industria che giustamente considerasi come principal risorsa di queste popolazioni. L’ora molto avanzata non ci ha permesso di estenderci al prossimo villaggio di Carolei, per osservare le cave di una pietra calcare porosa rossiccia di natura tufacea, che impiegasi a Cosenza ed in gran parte di quella provincia nella fabbrica degli edifizi. Anche presso Mendicino ci si è detto trovarsi altre cave di quella istessa  
pietra, ma di tessitura alquanto più compatta. ln effetti, a Cosenza ne abbiamo riconosciute due varietà: una più compatta di color bianco, che gli scalpellini  distinguono col nome di biancolella, e l’altra di grana più grossolana e di color rossiccio, che disegnano semplicemente col nome di tufo. Questo secondo, per essere più tenero, può segarsi in lastre della spessezza di un pollice e mezzo, e somministra cosi ottimi quadroni per  pavimenti delle abitazioni; della stessa pietra si tagliano anche le imposte delle porte, e tutto il resto delle analoghe costruzioni che possono restare al coverto delle intemperie; mentre per le ginelle, per gli archi, per le mostre, e tutto altro, che deve rimanere  aperta si preferisce la pietra bianca, perché meno della prima soggetta ad essere attaccata dalle meteore.
Nel ritornare da Mendicino a Cosenza, abbiamo battuta una strada diversa da quella fatta nell’andare: l’ora avanzata della notte difficile avrebbe resa la prima per l’acqua che bisognava replicate volte guadare. Questa seconda strada è tagliata nelle colline, ed attraversa sempre campi coltivati. Essa è dappertutto così agevole e larga, che guarì non andrà, che colle cure di quei comuni si renderà accessibile alle vetture. Di già un lungo tratto della medesima lo sarà col fatto, quando sarà terminata la strada di Paola, di cui gran parte è segnata su quella stessa traccia.  
La natura di questi terreni è delle più sterili argille; che perciò le biade non vi danno più del 5,  o 6 per uno; tra gli alberi vi abbondano gli ulivi ed  gelsi. L’industria della seta che qui prospera generalmente ha reso perfetta la coltura dell’albero che ne somministra l’alimento. Siamo stati assicurati, che per ottenerne maggior raccolta, si costuma spogliare i gelso in due anni di seguito e far riposare l’albero nel terzo, cioè in quello che segue la potatura.

Beninteso è questo metodo, e non diverso da quello, che praticasi in Lombardia e nel Piemonte. Raccolte le frondi del secondo anno si lasciano crescere  nuovi teneri virgulti senza molestarli, e quindi nel secondo e terzo anno se ne fa ubertosa raccolta. Forse gioverebbe differire la potatura  dell’autunno, ma questi coltivatori oppongono, che in quel caso si ritarderebbe di un altro anno la raccolta delle frondi. In generale può dirsi, non esservi coltura che sia in questi paesi così ben intesa, quanto quella dei gelsi. Non è lo stesso degli ulivi, che si osservano intristiti e carichi di vecchi ramoscelli, onde a torto questi proprietari si dolgono di vederli quasi sempre  poveri di frutti.

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