mercoledì 19 settembre 2012

L'antica via da Cosenza ad Amantea


Oggi abbiamo percorso l'antica via che da Cosenza scendeva ad Amantea. Abbiamo fatto il tratto da Greci al mare attraversando il Camolo.
Emozioni forti mo hanno fatto compagnia.
Riporto uno dei capitoli del mio nuovo libro: LA FINE DI UN SOGNO; Luigi Baffa storia di un italiano.
Il viaggio viene compiuto nel 1786 da Amantea a Cosenza sulla stessa strada.

" Partirono alle prime luci del mattino uscendo dalla porta di Catocastro e, dopo aver attraversato il fiume, salirono per il Camolo raggiungendo, dopo circa un paio di ore, il casale di Vadi posto sul crinale della collina. Avevano scelto questa strada perché li portava lontano dalle acque malsane del “Laghiciello” che, invece, avrebbero incontrato salendo dal casale di San Pietro costeggiando il crinale della montagna per giungere a Terrati.
 Il lago anche in ottobre, dopo una stagione di caldo torrido, rappresentava un pericolo per i fumi maleodoranti che da esso si alzavano. La strada che stavano percorrendo evitava invece questo incontro e consentiva anche di accorciare il cammino. Non vi era necessità di passare da Aiello e poi dai casali di Grimaldi e Rogliano ed era inutile correre il pericolo di qualche malattia che dal lago arrivava; il loro carico era destinato a Cosenza.

 La giornata era di un azzurro terso e il calore del sole aveva reso l’aria rarefatta. Lontano, piantate nel mare, Stromboli con il suo pennacchio di fumo e poi le isole, una dietro l’altra, e in fondo al mare, prima dell’orizzonte, a Sud, il fantasma dell’Etna. Guardando ti perdevi nell’infinito e avvertivi l’insensatezza dei tuoi sforzi mentre gli affanni diventavano un piccolo sospiro e la tua presenza un granellino nel mondo immutabile della natura. Una sensazione di pace estrema ti attraversava mentre percepivi di essere parte di questi boschi, di queste colline e del mare grande che era là sotto i tuoi occhi e non finiva mai. Tu appartenevi, come ogni altra cosa, a quel respiro lento che accompagnava il tuo cammino.
 Gli animali e gli uomini formavano una lunga fila che si adagiava sulla collina. Quella scena, nel ricordo, ora mi appare come un quadro, impressa nella tela dagli oli di un pittore. Ne vedo i colori, ne avverto la calma, ne sento il silenzio.
 Prima di Greci si fermarono per un breve riposo e per desinare. Comparvero come d’incanto delle forme di pecorino e della soppressata insieme a degli otri pieni di vino. Mangiarono con calma bevendo dagli otri grandi sorsate di liquido. Il salame fu tagliato in fette dallo spessore di un dito mentre i pezzi di pecorino accompagnavano grandi fette di pane. Non avrebbero più preso cibo fino all’arrivo alla sera e la sosta permetteva di riprendere fiato per il cammino che li attendeva.
 Luigi era frenetico e percorreva il sentiero avanti e indietro fermandosi a parlare con i mulattieri, facendosi raccontare storie di donne e banditi. La sua curiosità contagiava il gruppo e nessuno si negava alla risposta.
 Il ragazzo alla fine si era convinto ad andare in Collegio, lo aveva spinto il desiderio della nuova avventura e la promessa paterna di un viaggio in barca fino alla capitale nell’estate seguente. Era stato doloroso accettare l’idea di separarsi dagli amici, di non percorrere più le strade e i vicoli della sua città, ma aveva obbedito, si era piegato al volere paterno.
 La giornata era ancora lunga e i pericoli del viaggio iniziavano adesso nei boschi di Potame, una selva fitta di castagni, faggi, pini ed elci, che prendevano il posto della macchia mediterranea che li aveva accompagnati fino a seicento metri di altitudine. Non era raro, in questi luoghi, incontrare il cinghiale, la volpe e lo scoiattolo o vedere volteggiare nel cielo il nibbio alla ricerca della sua preda, sentirne il grido acuto rompere il silenzio e potevi ascoltare, proveniente dal fitto della selva, l’ululato del lupo.
 Nel bosco diventarono guardinghi. Non volevano correre il rischio di essere preda di un agguato, di uno di quegli assalti a tradimento che si terminavano in pochi istanti con il furto di qualche bestia o il rapimento di uno dei mercanti. Occorreva prudenza e bisognava affidarsi alla destrezza e al mestiere del capo dei mulattieri e alle armi dei miliziotti.
 Appena fuori Domanico furono fermati da un gruppo di uomini con il fucile tra le mani, il pugnale ai fianchi, la fiaschetta a tracollo e sul capo il capello nero a cono ornato di nastrini colorati in cui il rosso predominava. Briganti, ma non in numero tale da destare preoccupazione.
 Il loro capo, dal fisico atletico e dall’espressione truce, si fece avanti con il braccio alzato e il palmo della mano rivolto verso la comitiva nel segnale di arresto.
 “Bielli paisani, da duvi veniti?
Fermativi nu pocu cu nua: nu sorsu ‘i vinu, na fetta di panu e furmaggiu e magari nu pugni di ‘sti fichi ca purtati cu vua.”
 Conoscevano il nostro carico, ma il loro atteggiamento non era minaccioso: alcuni dei mulattieri erano loro conoscenti e forse loro compagni di malaffare in passato. Sapevano cosa trasportavano, ma non erano in grado di prendersi la roba.
 “Cumpari Micu n’aviti fattu na surpresa.- Biagio il capo dei mulattieri, Biagio Anzovito, dai baffi folti e neri e dallo sguardo duro come un macigno, parlava al bandito. Parlava con lui come si fa con un conoscente, con qualcuno con cui si è mangiato pane e formaggio e spartito il rifugio. - Cumu aviti fatto a sapiri che un convoglio saliva la montagna?
 Baaha!
 C’ sempre ‘na spia pronta a tradire, nu Giuda che vive tra di noi.
 Cumpari miu vua certamente non direte una parola? Non farete mai il nome del traditore, ma sapete pure che con mia ‘un n’é possibile prendersi il carico senza combattere.
 Micu’ a mia ‘un na faciti, statini certu!”
 “Biagiu Anzovi’ e chi vo’ pigliarsi ‘a robba?
 Brigante si, fesso no!
 U sacciu che nu scrontu vide a nua perdituri. ‘Un vulimo arrubbari! E pu’ arribbari a vua? Allu mio cumpari?
 Simo tutti cristiani, ‘un simo cumu chilli  ca si futtuno puri i gallini!
 Simu cca, allu passu e tutti ni lassunu ancuna cosa.
Ci simu nua e la presenza nostra ‘un permette che ci siano cristiani marvagi.  Nua survegliamu u boscu, cu nua site sicuri, putiti camminari in paci.”
 Il brigante appariva anche lui un mercante, un venditore, che invece di frequentare le fiere di paese se ne stava appostato nei boschi e acquistava, incutendo paura, la roba degli altri senza pagare una grana.
 Non erano una grossa banda e apparivano mal armati, ma dalla loro stava la conoscenza perfetta del territorio e la possibilità di colpire alle spalle senza farsene accorgere.
 “Micu’ sti signuri, cumu tu sai, vengono da Amantea e portano a merce loro a Cosenza. Tutti rispettabili sunu e anche ‘mportanti. Iu mi signu incaricatu della loro protezione.
 A parola di Biagio Anzovito è una merce preziosa e non sarete voi a impedire il passo.
 U saggiu che aviti fami, u saggiu ca siti alla macchia per le ingiustizie subite, ma la rrobba loro ‘un na toccati.”
  Questo non significava che potessero andare oltre senza pagare il pedaggio: si sarebbero lasciati dietro dei nemici e uno sgarbo era difficilmente scordato da gente simile.
 Avrebbero pagato. Un cesto di fichi secchi, un barile di alici salate, un vaso di tonno sott’olio potevano bastare e in cambio avrebbero avuto la certezza di non essere più molestati fino a Cosenza e di non fare brutti incontri al ritorno. Al ritorno avrebbero dovuto ridare qualcosa della merce acquistata in città: qualche camicia, una manciata di nastri colorati. I “signuri di Amantea” si sarebbero rifatti delle perdite aumentando il prezzo delle merci, qualcun altro avrebbe pagato al loro posto.
 Luigi rimase sorpreso, i briganti non erano feroci come se li era immaginati. Sì, erano eguali nel vestimento alle figure viste nei libri, avevano le armi dei racconti, ma non prendevano con la forza la roba degli altri. Il loro capo non era intelligente come pensava che dovesse essere un gran brigante. Lo aveva capito scrutando gli occhi dell’uomo, pupille poco mobili, incapaci di percepire la totalità del mondo, occhi duri, frutto della vita pericolosa condotta, ma anche occhi non guizzanti, non in grado di adeguarsi velocemente a fatti in rapido cambiamento. Forse anche per questo la banda non era cresciuta diventando un piccolo esercito.
  Il ragazzo chiese il permesso di toccare le loro armi, prese in mano lo stiletto, assaggiò il vino delle loro borracce e sentì il racconto di uno di loro.
 Il brigante apparteneva a una famiglia di contadini, che lavoravano a giornata sulla terra altrui, tanto era scarsa la possibilità di sfamarsi del frutto del proprio terreno. Una vita di miseria condotta alla ricerca perenne di qualcosa con cui cibarsi L’unico loro bene era una capra. La bestia aveva invaso il terreno della famiglia di don Antonio, il notaro di Carolei ed era stata sequestrata e mangiata dai suoi guardiani. Un torto senza rimedio, un’ingiustizia che privava i suoi del latte dell’animale. A nulla erano valse le lamentele, a nulla le richieste di risarcimento: il giovane si era fatto giustizia da solo sgozzando le pecore di don Antonio e dopo era stato costretto ad andare in montagna ed unirsi alla banda.
 “Signu iutu alla casa del notaro; che paura ca avive! Mi battive forti ‘u cori. Fino a chillu iurnu non avive fattu mali a nessunu, anche qannu a mamma mia ammazzave li gallini iu avive di guardari i l’atra vanna.
 Ho bussato rispettosamente al suo portone ed ho atteso il permesso di salire le scale. Ho aspettato che Don Antonio mi ricevesse.
 ‘N’attesa longa, nemmenu nu principu m’avisse fattu aspettari tantu.
 Ed iu è aspettatu cu’ lu cappiellu in manu in signu di rispettu. Mentre aspettavo morivo, la paura aumentava, mi ripetevo le parole che avrei dovuto dire per non scardarmele e ritornare indietro senza aver pronunciato nulla.
 Nu uaglunu eru e donn’Antoniu avivi tuttu: casi, greggi, terreni e guardiani. Iu eru sulu, na capra avive e loru si l’erunu mangiata.
 A mamma mia ‘un vuliva che iisse alla casa du padrunu e memmenu suorma.
 Chi putive fare nu ugliunu?
 ‘Un putive che crisciri, diventare uomminu.
 E daccussì iu è fattu: n’uommunu signu diventatu, n’uommunu furiusu quannu don Antonio m’a cacciatu da casa sua, quannu m’à negatu u tuortu ca a famiglia mia avive ricevutu.”
 Luigi ascoltava con attenzione e dentro sentiva la rabbia montare contro il notaro di Carolei: anche lui avrebbe chiesto giustizia, anche lui si vedeva nei panni del brigante e domandò: “C’à fattu pu’, ti si fattu giustizia, si iutu a chiedere l’intervento dei gendarmi?
 Dimmi, raccontami cosa hai fatto?”
 “Vossignoria putive iire dai gendarmi e si putive pigliare l’avvocatu, ma iu ‘un avie nenti e cu chi li pagave l’avvocati?
 Chi mi stave a sentire a mia?
 ‘Un aiu avutu atri possibilità, sulu a vendetta mi restava, sulu faciennu ‘u malu putive rennere chillu ca avie ricevuto.
 Signu ritornatu alla casa e che chianti è dovutu sentire. I fimmini, a manna mia e la suora mia a mi pregari, a mi chiedere di scurdari.
 “‘Un nu fari dicivunu; ‘ un nu fari”.
 N’uomminu chi putive fari?
 Lavari u tuortu cu ‘na vendetta, ecco chi putive fari e iu l’è fattu...
 Tuttu nu greggiu è ammazzatu, tuttu!
 Vua c’avissivu fattu?
 Vossignoria c’avisse fattu?”
Il brigante chiedeva ansioso e aspettava una risposta che placasse i rimpianti. Una vita lasciata dietro, una vita misera, ma onesta era quella che si era lasciata alle spalle per la prepotenza di un galantuomo.
 “L’avisse ammazzate tutte pur’iu” il giovane Baffa rispose e i loro occhi si incontrarono in un cenno di totale intesa, di condivisione.
 Ripresero il cammino: mancavano ancora poche ore al tramonto e non volevano farsi cogliere dal buio della notte a girovagare nei boschi.
Scesero velocemente verso Carolei e dopo finalmente nel Busento.
 Appena prima del tramonto furono a Cosenza, fermandosi per la notte ai Rivocati"

1 commento:

  1. Grazie, Mario.
    Nella camminata che avete fatto da Camoli ai Greci, penso che avrai rivissuto le emozioni (tue) dei tuoi personaggi.

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